Non vivere?
Perché è più semplice. Vivere senza vivere è, al giorno d’oggi, nella nostra società, la cosa più facile che si possa fare. Basta impegnarsi un po’ per far si che non sia così evidente. Diamine, bisogna divertirsi, o convincersi di divertirsi. Bisogna godere o far finta di godere (far finta di godere, ci rendiamo conto di cosa stiamo parlando!?!). Non deve essere necessariamente reale, la cosa importante è che sia credibile e che noi in primis ci crediamo. E dunque la società si è adattata e ci fornisce mille comodi modi per godere. Con il minimo sforzo, sia chiaro. E noi siamo felici. O, almeno, siamo credibili quando diciamo di esserlo.
Ci rende felice l’uscita il sabato sera con i nostri amici, e cerchiamo di divertirci il più possibile in quelle sei o sette ore, perché le prossime saranno tra giorni. E dunque la necessità di divertirsi in quelle ore, di far qualcosa di speciale, di far qualcosa che sembri speciale, che stacchi dalla routine settimanale, ma che dall’altro lato non comporti troppa fatica. Ci divertiamo e ci convinciamo che sia abbastanza.
Ma io non vorrei sei ore alla settimana, io vorrei la settimana tutta. E i mesi. Io vorrei scambiare idee con i miei amici e avere la possibilità di cambiarle tutti i giorni e tutti i giorni aggiornarci reciprocamente. Io vorrei vivere una comunità, basata su relazioni che non necessariamente si consumino in momenti “speciali”. Relazioni basate anche sulla quotidianità. Un’interpretazione della relazione sociale che forse ho avuto la possibilità di sperimentare solo due volte nella mia vita: con il mio coinquilino, all’università e con Maria, nel nostro periodo australiano.
Perché? Come ci siamo arrivati a relegare le relazioni a tempi cronometrati da far fruttare al massimo manco fossero investimenti? Le relazioni dovrebbero esulare dal concetto di investimento, io non sto investendo il mio tempo con un amico, la mia ragazza, un familiare o anche uno sconosciuto per aver qualcosa indietro, io sto passando del tempo, conscio del fatto che il tempo di una vita è di per se limitato e consapevole di dedicarlo a quella determinata persona piuttosto che a me stesso o ad altro.
Utopia.
Io sogno, io voglio una vita che sia prima di tutto relazioni sociali. Voglio svegliarmi la mattina e avere il tempo di preparare il caffè, non uno, tre moke, voglio, esigo il tempo di andare dal fornaio a prendere qualche croissant fresco da portare a chi possa mangiarlo (io son celiaco!). Voglio ascoltare Norah Jones mentre mi faccio la spremuta. Una vacanza? No, un’utopia. La vacanza è un’altra cosa, la vacanza è un sabato sera lungo, ma sempre con quell’inconsapevole senso di dovere. Di dovere a tutti i costi godersi quei momenti perché sono minuti preziosi (ed ecco tornare latente il concetto di investimento del tempo).
Non sto sognando una vita di ozio, ma una vita di cui le componenti assumano il giusto ordine di priorità.
Io la sogno. E la esigo. Perchè? Perché altrimenti non è vivere. E’ un singhiozzare la vita, a fasi alterne, perché ci si sente obbligati. E in questo marasma di obblighi si perde completamente (o quasi) di vista la propria volontà, forse dettata dall’istinto. E la si confonde con i doveri, imposti, o scelti, più o meno consciamente. E ci si barcamena cercando di trovare uno sfogo, un raro sprazzo di “anarchia” per dare voce alle nostre volontà, mediate, smussate, rivisitate e adattate, perché solo così possono trovare un’espressione nella nostra “non-vita”. E quei secondi, quegli attimi ci danno una pallida idea di come vorremmo fosse la nostra vita. A prescindere da tutto, nel profondo.
Come?
Come ristabilire l’ordine? Come godere per davvero? Come riprendersi il proprio tempo e compiere la propria volontà? Come fare di questa non-vita una vita?
Non lo so.